di Michela BIANCARDI
La sfida del Comune di Barcellona è stata quella di trasformare Poblenou in un quartiere misto, un quartiere vivo: da centro industriale, a post-industriale, da fabbriche e ciminiere a spazi rinnovati e reinventati.
Un modello urbano misto, di alta qualità, che coesiste con il patrimonio industriale del quartiere, grazie all’approvazione del “Pla de Protecció del Patrimoni Industrial”, redatto in collaborazione tra il 22@ e il Comune di Barcellona, in cui sono stati messi sotto tutela 114 manufatti architettonici ritenuti di interesse.
Il primo caso è una ex fabbrica di bottoni risalente alla fine del XVIII secolo, proprietà della famiglia Framis, riconvertita in museo della pittura contemporanea. Realizzato dallo studio BAAS Architects (Jordi Badia) e inaugurato nel 2009, al suo interno espone circa 300 opere d’arte.
Si potrebbe dire che il percorso di visita inizi già esternamente, dal giardino che circonda il museo (progetto seguito dallo studio EMF landscape architecture di Martí Franch). Un susseguirsi di camminamenti in cemento con andamento a zigzag che danno accesso ai diversi angoli del giardino, uno dei quali collega all’ingresso del museo.
Il parco, leggermente ribassato rispetto alla quota del piano stradale, crea un’oasi di silenzio e tranquillità, in contrasto con il caos cittadino dell’intorno. Uno spazio naturale con un aspetto spettinato e poco disegnato, con stradelli stretti e tortuosi, arredati con panchine metalliche di colore verde. Le pendenze dei vari livelli sono totalmente ricoperte di edera, da cui sbucano un gran numero di bulbi di fiori che esplodono, a seconda della stagione dell’anno, in differenti sfumature di colori. La fitta vegetazione di querce e pioppi bianchi con i loro colori chiari, le chiome eleganti e longilinee, il suggestivo e intricato disegno dei rami, crea un gradevole movimento visivo che offre all’insieme un aspetto di bosco informale.
Il verde si insinua fino alla corte centrale, dove, invece, la presenza di alberi si limita a interventi puntuali, che ne interrompono la pavimentazione.
Il cortile centrale a pianta quadrata costituisce uno spazio semi-pubblico, dedicato ad attività polivalenti, ma rappresenta anche l’accesso principale al museo. Una lunga pensilina che ricorda un porticato, chiusa longitudinalmente da una cancellata formata da grandi catene, ne segna il confine dal lato libero. Gli altri vertici del quadrilatero sono invece chiusi dalle facciate degli edifici che compongono il museo.
I manufatti preesistenti avevano poco valore architettonico ed erano in totale stato di decadimento. L’intervento ne ha comunque previsto il restauro, ma solo di due dei quattro blocchi dell’antica fabbrica e della ciminiera, che ricorda il passato industriale di Poblenou. Il progetto ha integrato gli edifici esistenti, quasi paralleli tra loro, con un nuovo blocco di collegamento in cemento armato grezzo, proprio nella stessa posizione in cui sorgeva un vecchio magazzino della fabbrica. Il nuovo edificio, che collega gli altri due, stabilisce un’interessante dialettica tra il vecchio e il nuovo, scegliendo la brutalità del calcestruzzo come elemento di coesione.
La malta si mescola con la muratura in mattoni, che, a sua volta, si fonde con il cemento a vista dei nuovi edifici. Uno strato di vernice di colore grigio chiaro protegge le pareti delle facciate preesistenti, permettendoci di leggerne la texture, fatta di mattoni, pietra, archi, nicchie, architravi e vecchie cicatrici di finestre. La facciata diventa così un collage contemporaneo di differenti trame che raccontano i diversi stadi dell’edificio nel corso del tempo, un po’ come le rughe sul viso di una persona ne mostrano l’esperienza.
Analogamente, nel secondo esempio, da fabbrica tessile a fabbrica della conoscenza è il percorso del vecchio complesso industriale, Ca l’Aranyó, specializzato nella produzione di cotone e lana nel XIX secolo, con il sistema di filatura inglese Bradford.
Cento anni dopo, gli architetti Antoni Vilanova, Eduard Simó, Josep Benedito e Ramon Valls ricevono l’incarico di progettare il nuovo Campus Poblenou dell’Università Pompeu Fabra.
L’edificio in mattoni rossi, il cui progetto fu redatto dalla compagnia inglese Prince Smith e costruito nel 1878, è il risultato del connubio tra due linguaggi architettonici (inglese e catalano) che lo rendono singolare nel panorama degli edifici a carattere industriale di quel periodo.
L’obiettivo principale degli architetti è stato quello di restaurare le costruzioni esistenti, fermando il processo di degrado dei due edifici a mattoni rossi e della ciminiera. Sono state inoltre consolidate le strutture, le fondazioni e le coperture, senza modificare le caratteristiche formali, tipologiche e spaziali dei fabbricati ex industriali.
Il campus della UPF di Poblenou è formato da due edifici esistenti e tre edifici nuovi che sorgono attorno a uno spazio urbano che li relaziona. La volumetria del complesso risponde all’idea di mantenere il carattere delle aree industriali (fine XIX secolo e inizio XX), tanto che prevede strade interne che seguono gli allineamenti degli edifici dell’antica fabbrica. Una corte ospita la ciminiera che svetta in tutta la sua imponenza.
Per chiudere lo spazio centrale e creare un patio interno è stato aggiunto un nuovo volume che “riproduce”, come in uno specchio, gli edifici in mattoni, reinterpretati in forma di lama.
Qui, il vecchio e il nuovo, a differenza di quanto accaduto in Can Framis, non si toccano mai, se non attraverso il piano sotterraneo dove si trova l’Auditorium.
La ciminiera, anch’essa simbolo della vecchia fabbrica, non solo è stata restaurata, ma ha anche recuperato il suo uso originario, poiché utilizzata per l’evacuazione dei gas di combustione dalla vicina centrale elettrica di Tànger per la rete urbana.
Gli interventi strategici ipotizzabili, come in questi casi, riassumono in sé istanze multidisciplinari che spaziano dalla ri-funzionalizzazione di un ex-fabbricato industriale, all’analisi volta a identificare le migliori metodologie di restauro, all’elaborazione progettuale della sua nuova identità contemporanea, fino alla valorizzazione urbana e sociale di un nuovo tassello di città.
Il recupero dell’industrial heritage è diventato oggi una delle leve strategiche per il rilancio culturale di città e territori e per nuovi programmi di rigenerazione urbana, con l’obiettivo di valorizzare i beni lasciati dalla civiltà industriale per restituirli al pubblico come patrimonio culturale collettivo.